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"The Crown" stagioni 3 e 4



di Lorenzo Meloni


Le prime due stagioni di The Crown avevano esplorato il conflitto fra umanità e istituzione a cui era costretto ogni membrodella famiglia reale, raccontando la Corona dall’interno nei termini repressivi di una livella dei caratteri e dell’indipendenza. Le vicende dolorose e profondamente umane di personaggi come Margaret, Filippo o dell’ex-sovrano Edoardo VIII avevano come sole alternative il piegarsi o lo spezzarsi (cioè uscire dai giochi) davanti a un monolite che non mostrava invece nessuna crepa. La terza stagione inizia con un colpo di genio narrativo, sfruttando le caratteristiche stesse del mezzo televisivo per portare gli spettatori a una nuova prospettiva sui vecchi personaggi: il problema è far digerire il cambio integrale del cast necessario a rimarcare lo scorrere degli anni, a partire dalla sostituzione di Claire Foy con Olivia Colman nei panni della protagonista Elisabetta. Un procedimento delicatissimo, come sa chi conosce l’importanza dei processi di familiarizzazione e “innamoramento” fra pubblico e interpreti per il duraturo successo di una serie.


Anzichè aggirare timidamente il problema The Crown lo prende di petto, riuscendo a fare di necessità virtù. Il senso di estraneità, freddezza e generale diffidenza che non si può non provare nel momento in cui attori con cui si è trascorso tanto tempo vengono sostituiti da altri, la serie lo imbriglia e lo utilizza per chiarire fin da subito che queste due nuove stagioni saranno altro. Non più, con la tragica eccezione della figura del principe Carlo, la prospettiva interna dei rappresentanti della Corona e la dialettica umanità/ruolo istituzionale, ma una prospettiva esterna, più critica e meno compassionevole, sulle loro vicende. Gli Elisabetta e Filippo di Foy e Matt Smith erano due ragazzi “come noi”, di altissimo rango e di tutt’altra generazione ma comprensibili nei loro tentativi di venire a patti con gli obblighi spersonalizzanti che accompagnavano i loro privilegi. Colman, Tobias Menzies (Filippo), Helena Bonham-Carter (Margaret) e gli altri sono adesso proprio quello che l’etichetta di corte voleva farli diventare nelle prime due stagioni: simboli di un’autorità tradizionale.



È il salto di cui c’è bisogno per iniziare ad allargare lo sguardo oltre le mura di Buckingham Palace, in un’Inghilterra anni ‘70 e ‘80 dove le crisi dei due decenni precedenti trovano nuove terribili conferme fraun Commonwealth sempre più scricchiolante, le questioni gallese e irlandese, l’ormai certificata perdita dello status di grande potenza mondiale e lo spettro della crisi economica. In precedenza l’unico nostro contatto col “mondo di fuori” erano stati primi ministri e consigli di Downing Street ma ora, a partire dall’eccezionale episodio sulla tragedia del crollo minerario di Aberfan, abbiamo il primo vero assaggio dei drammi e degli umori di una società. Proprio la Corona, emblema in negativo come in positivo, diventa lo specchio delle contraddizioni che attanagliano il paese, percepita da una parte della popolazione come costoso e inutile relitto di un passato in cui gli Inglesi non si riconoscono più. The Crown 3 e 4 sono dunque il racconto di una sopravvivenza simbolica difficile, quella di un’identità nazionale in crisi vista attraverso le vicende dell’istituzione che tanto a lungo ne aveva custodito orgoglio e speranze.


Mentre la terza stagione sfrutta abilmente il percorso introduttivo di nuovi interpreti e personaggi per toccare alcune questioni sensibili (l’educazione di Carlo e l’indipendentismo gallese) uscendo in gran parte dal palazzo e permettendoci di perlustrare il regno e il tempo di Elisabetta, la quarta non può che tornare ad essere soprattutto uno studio di personaggi. Ha infatti il compito di plasmare una materia delicatissima: sul piano politico il lungo dominio del partito conservatore a guida Margaret Thatcher, su quello mediatico la favola senza lieto fine di Diana Spencer, la principessa più amata dagli Inglesi in virtù di un’umanità e modernità che sembravano distinguerla in quel mondo così chiuso e tradizionale. Davanti al fascino di figure così ambigue The Crown non si lascia andare a giudizi univoci: della Thatcher ad esempio si critica la politica, soprattutto nell’episodio in cui un ragazzo di estrazione proletaria riesce a penetrare in Buckingham Palace per un’estemporanea udienza con la regina, ma si elogia anche la forza d’animo che ne ha fatto la prima leader inglese donna, seppure una donna ferocemente maschilista e misogina.


Né lei (interpretata da un’irriconoscibile e straordinaria Gillian Anderson) né Diana vengono però presentate in maniera diretta. Piuttosto, queste due donne così singolari e così centrali nella storia britannica recente sono intelligentemente collocate nel ruolo di osservatrici critiche della corte, capaci, ognuna col suo impressionante portato simbolico, di rappresentare in modo semplice e diretto aspetti diversi e profondamente contraddittori di una sensibilità in evoluzione. La Thatcher è l’orgoglio ferito di un’ex-grande nazione in cerca della gloria dei secoli passati, Diana è il glamour hollywoodiano già proiettato verso quel ventunesimo secolo che per tre anni non riuscirà purtroppo a vedere, una rockstar e al contempo una donna del popolo, con quel mix di caratteri trascendenti e terreni che è il segreto della vera divinità. Da dentro la sua parabola brillò di tutt’altra luce, come la serie mostra efficacemente e crudamente. Ma per il finale della “fiaba” dovremo aspettare la prossima stagione.





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