top of page

THE END? L'INFERNO FUORI


di Lorenzo Meloni

C'era una volta l'horror italiano. Organo fondamentale del sistema di generi di un'industria fiorente, fonte di guadagni senza cui gli ambiziosi progetti dei grandi autori del dopoguerra non si sarebbero mai realizzati e culla a sua volta di artisti straordinari. Quello dei pionieri Bava, Freda e Margheriti. Poi degli allievi Fulci, Deodato, Argento e Soavi. Per alcuni decenni ha fatto scuola oltreoceano contribuendo in misura fondamentale alla nascita di almeno tre filoni: Slasher, Splatter, Found-footage (il cosiddetto "falso documentario" che le storie del cinema fanno nascere col nostro Cannibal Holocaust). "Gli Americani ci hanno copiato tutto" diceva ridendo Lucio Fulci. Proprio grazie a lui e al suo - oramai - classico del genere Zombi 2 (1979) si deve aggiungere all'elenco una nutrita produzione di zombie-movie nostrani, b-movie grotteschi e grand-guignoleschi in certi casi così ricchi di fantasia da stamparsi nel dna cinematico di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez..

Poi, più o meno a cavallo fra anni '80 e '90, tutto finì. E non solo l'horror ma l'intero spettro della cinematografia di genere italiana (western, thriller, commedia, poliziesco). Non che siano mancati singoli episodi degni di nota. Ma quella che in un dato momento era stata la seconda industria cinematografica del pianeta arrivò - per motivi che avrebbero bisogno di un ragionamento a parte - a non poter neanche più definirsi tale. Negli ultimi venti anni solo Dario Argento è riuscito, grazie a un nome che fa e farà sempre cartellone, ad aggiungere ogni tanto un titolo alla storia dell'horror tricolore. Ma i risultati sono al limite del tragico. Intanto un talento come Michele Soavi si è reinventato regista televisivo di fiction, principalmente drammi storici e polizieschi. C'era una volta l'horror italiano. Ma ormai da tempo non c'è più.

I maggiori meriti dei realizzatori di The End? L'Inferno fuori (fra cui figurano come produttori esecutivi i Manetti bros) stanno nel non romanticizzare quel passato irrecuperabile indulgendo in emulazioni, omaggi, citazioni assortite. Non è con la nostalgia che si gira un buon film di zombie, terreno abbordabile con un po' di lattice e sangue finto per il make-up ma di difficilissima gestione drammaturgica. È con la mente lucida e aguzzando l'ingegno. D'altronde, va detto a lode del regista Daniele Misischia che non teme il senso di straniamento: come difficilmente oggi ci si aspetterebbe, il suo è un film schiettamente italiano, anzi romano, che non scimmiotta i prodotti a stelle e striscie e coglie l'occasione per parlare - criticamente come nella miglior tradizione horror anni '70 - di noi. Guasti per cattiva manutenzione, superiori che alzano inopportunamente le zampe sulle colleghe donne, traffico da incubo all'ora di punta contribuiscono a creare un'atmosfera familiare anche più della parlata o degli scorci di Castel Sant'Angelo.

La strategia alla base del film, che per quasi metà riesce effettivamente a trainarlo e farlo viaggiare spedito, è pensata per prendere tre piccioni con una fava. Nei primissimi minuti di film il protagonista, giovane e arrogante businessman interpretato da Alessandro Roja, si trova bloccato in un ascensore guasto, la cui cabina rappresenta la principale ambientazione del film sulla falsariga di altri recenti film "di stallo" di produzione italiana come Buried o Mine. L'unità di luogo/tempo/azione permette 1) di ovviare alle difficoltà pratiche e finanziarie di girare in una città come Roma 2) di mitigare il senso di tepore e allegria che la Città Eterna potrebbe suscitare per le sua strade ampie e la luce accecante 3) di costruire sulla claustrofobia e l'autoconfronto che ne consegue un dinamico studio morale del protagonista.

Dopo una prima parte agile e scorrevole il gioco inizia purtroppo a mostrare la corda. La regia, curata e corretta, si ingegna per evitare la monotonia. Gioca con le voci al telefono o all'interfono, chiama in scena nuovi personaggi, sfrutta come refrain l'inquadratura di raccordo della veduta esterna dell'edificio presa a prestito dal "papà" dello Zombie moderno George A. Romero, o quella dell'ascensore ripreso dall'alto che rimanda a The Kingdom di Von Trier. Ma non riesce nell'impresa (improba per cineasti anche molto più esperti) di mantenere alto il ritmo malgrado la ripetitività delle situazioni che si rincorrono attorno all'ascensore. E manca una sceneggiatura davvero solida, ciò di cui in genere l'horror può fare a meno assai più di altri generi ma che in una situazione tanto particolare diventa irrinunciabile. A tratti il bravo Roja è costretto a esagerare per riempire la scena, con qualche punta un po' eccessiva. Con tutti i suoi difetti, The End? rappresenta oggi una rarità nel panorama cinematografico italiano. Fa sperare che qualcosa si muova sulla strada per la rinascita del nostro cinema di genere, e per questo va premiato e sostenuto. Chissà che un giorno non si possa dire "c'era una volta l'horror italiano. E c'è ancora".



36 visualizzazioni

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page