di Lorenzo Meloni
"Non si tratta di un evento giornalistico" sottolinea Flavio Tranquillo in live su youtube ai microfoni di Marco Montemagno, “anche se ovviamente la stampa specializzata ne avrà da mangiare per un bel pezzo”. La possibile risposta su cosa invece sia The Last Dance (serie Netflix in dieci puntate sull'ultima stagione dei grandi Chicago Bulls di Michael Jordan) arriva qualche secondo dopo, quando la voce italiana del basket NBA conferma le indiscrezioni su un'analoga operazione futura riguardante Kobe Bryant. Discepolo di Jordan in ogni aspetto, dalla forma mentis ultracompetitiva alle signature moves, del suo idolo Kobe aveva recepito anche e soprattutto gli aspetti mediatici che ne fecero il primo giocatore-brand dell’era moderna, secondo alcuni “più importante della stessa lega”. E quando al suo orecchio fino arrivò la storia che Jordan, per l’ultima stagione (1998) dei suoi Bulls, era stato filmato ininterrottamente da una troupe incaricata di documentare l’ “ultimo ballo”, Bryant prese per l’ennesima volta nota, intercettando in modo ancor più costante e programmatico lo sguardo delle telecamere e raccogliendo materiale sufficiente a suggellare definitivamente la propria legacy.
Quella di Kobe è una storia diversa e più moderna, quella di un uomo capace di portare alla massima altezza l’asticella dell’autonarrazione costruendosi mediaticamente un giorno dopo l’altro con la stessa metodicità riservata ai massacranti allenamenti in palestra, navigando a vista fra scandali e controversie che “se non ti uccidono ti fortificano”. È la storia di oggi, in breve, ma non sarebbe possibile se i riflettori, per grazia semi-divina di un solo uomo (a sua volta erede dei Bird e Magic degli anni ‘80) non si fossero puntati tutti insieme su una pagina irripetibile dello sport americano. I Bulls di Jordan – fino a quel momento massimo trionfo “hollywoodiano” in un contesto già di per sé dotato di una capacità di penetrazione culturale del tutto ignota qui in Europa – sono stati volenti o nolenti l’anticamera di qualcosa che ci accompagna ancora oggi, quando ogni sportivo di primo piano (non solo gli ipercarismatici Babe Ruth e Muhammad Ali, o all’altro emisfero Mike Tyson e Diego Armando Maradona) è al contempo un’azienda multinazionale ed un influencer chiamato a rispondere della propria condotta dentro e fuori dal campo.
Tutto questo investì Jordan e i suoi con anni di anticipo, e il fascino di The Last Dance sta soprattutto nelle contraddizioni che appaiono a uno sguardo contemporaneo dalle (bellissime, inestimabili, iperdefinite, valevoli da sole del prezzo del biglietto) immagini di quei mesi, in ogni senso pionieristici. L’altro decano del basket NBA in Italia, Federico Buffa, con la sua sensibilità di narratore individua immediatamente il carattere “attoriale” dei principali protagonisti: l’enigmatico, impenetrabile Jordan; il sereno, proletario Scottie Pippen; l’ascetico allenatore-predicatore Phil Jackson; il fosforescente (ma anche fragile, ironico) Dennis Rodman, che della propria immagine mediatica dice “è un mostro che ho creato io”. Qui sta il punto. Questi uomini sanno di recitare su un set, sono chiaramente intenti alla propria mitopoiesi. Eppure, con tutta la loro seminalità e attualità, sono anche creature del passato, quel passato tanto più perturbante perché vicino e apparentemente a portata di mano. Nessuno oggi potrebbe più permettersi di dichiarare odio a un’intera squadra avversaria, come fa con la massima serenità Jordan in riferimento ai Detroit Pistons di Isaiah Thomas. Nessuno potrebbe più permettersi di irridere chicchessia con battute sull’altezza – figurarsi il proprio general manager. The Last Dance è stato l’ultimo per quei Bulls ma in un certo senso ha anche chiuso le porte su un’epoca, un’epoca tanto dello sport quanto del costume. E dà i brividi lungo la schiena vedere queste immagini, come se accendendo la luce – la luce che solo quella squadra potè calamitare con insistenza da reality ante-litteram - potessimo sorprenderla a sgattaiolare fuori dalla finestra.