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The Old Oak

di Luigi Ercolani


A quattro anni di distanza dall'ultimo film, Sorry we missed you (2019), Ken Loach torna al cinema, e lo fa nello stile che da sempre lo ha contraddistinto. Il regista britannico, senza coinvolgere ne cast prestigiosi nomi dello star system internazionale, con il suo ultimo lungometraggio ha il grande merito di riuscire a raccontare con una precisione pressoché chirurgica la condizione della classe operaia della provincia inglese, quella provincia che è lontanissima dai bagliori e dai lustrini di Londra o da due nodi industriali e commerciali cruciali come possono essere Liverpool o Manchester.

Sin dal primo impatto lo spettatore si trova appunto immerso in un'ambientazione alla Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000), e non casualmente. Loach intende volutamente ricreare tale tipo di atmosfera, e lo dichiara apertamente inserendovi un non immediato riferimento interno: tra le foto in bianco e nero che sono presenti all'interno della locanda che dà il nome al film, “The Old Oak”, ne sono infatti presenti anche di relative all'incidente (una detonazione che uccise più di ottanta persone) avvenuto nel 1951 nella miniera di Easington Colliery, ovvero la cittadina dove fu in gran parte girato lo stesso Billy Elliot.

Il regista parte dagli stessi presupposti culturali: un borgo della provincia inglese che si pone con ostilità nei confronti di quelle decisioni prese dalle istituzioni centrali che non tengano in considerazione le peculiarità di una comunità che, quando serra i ranghi, lo fa proprio in virtù della sua distanza dai centri di potere politici. In un tale contesto, tanto rinsaldato al suo interno quanto diffidente verso l'esterno, introdurre bruscamente e senza le dovute precauzioni un corpo estraneo, come in questo caso un nutrito gruppo di famiglie provenienti dalla Siria, significa inevitabilmente mettere in difficoltà entrambi i gruppi sociali chiamati alla convivenza, e creare dunque le premesse per una progressiva avversione reciproca.

Sarebbe quindi superficiale ritenere che, con The Old Oak, l'intenzione a monte di Ken Loach fosse quella di mettersi in cattedra e dare a tutti una sana lezione sulla nocività di un fenomeno come quello, pur grave, del razzismo. Il regista si impegna infatti per mettere sul medesimo piano entrambe le comunità, mostrando come certe operazioni sociali sia più facile stabilirle a tavolino dietro una scrivania piuttosto che metterle in pratica, e che anzi, spesso le persone che le devono concretamente attuare siano lasciate totalmente in balia degli eventi da chi prende tali decisioni, con il rischio dell'incidente diplomatico (e non solo) sempre dietro l'angolo.

In questo senso, il regista è netto nel dichiarare che, di fronte alla miopia di istituzioni politiche che, parafrasando un famoso adagio, fanno le pentole ma non i coperchi, le strade percorribili sono sostanzialmente due. La prima è andare al muro contro muro, nella convinzione che alla fine una delle due comunità deve soccombere, e se si schiaccia ciò che prova a porsi in mezzo si tratta di meri danni collaterali, inevitabili nella tribale battaglia per la sopravvivenza. L'altra, diametralmente opposta, è invece la via fatta dell'impegno di uomini e donne di buona volontà, di chi lavora alacremente ogni giorno per cucire e non per strappare, per far sì che nessuno si trovi escluso dalla vita comunitaria. La scelta su quale delle due strade percorrere spetta ad ognuno, quotidianamente.

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