di Lorenzo Meloni
Terry Gilliam non ha certo bisogno di presentazioni, e i ragazzi di Kinodromo sono stati giustamente stringati. In poche parole sono riusciti a collocare l'opera forse più nascosta (oppure èTideland?) del maestro americano. E il film si colloca, esattamente, "fra due sfighe". Se c'è un artista il cui pessimismo cosmico le sue vicissitudini produttive sembrano confermare in pieno, quello è Gilliam, che all'epoca dell'uscita di The Zero Theorem non si vedeva al cinema dal 2009, quando solo il disinteressato abbraccio collettivo di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell salvò dal disastro Parnassus - l'uomo che voleva ingannare il diavolo dopo l'improvvisa (e quantomai improvvida) morte dell'amico Heath Ledger. Subito dopo invece L'uomo che uccise Don Chisciotte, corsa ferma a neanche 2 milioni di incassi contro sedici di budget ma che importa al cospetto del film di tutta una vita? Che era materia di leggenda (e di un documentario) già 16 anni prima di vedere la sala, che l'autore pensava da 29 e che più che una vicenda produttiva ha un bollettino di guerra?
Nessuna sorpresa quindi se, a sua volta travagliato ma forse a questo punto non abbastanza, il progetto è rimasto un po' schiacciato fra due "fallimenti" così enormi e affascinanti. Neanche il botteghino ha sorriso di più, eppure aveva Christoph Waltz fresco di Oscar per Bastardi senza gloria (e col secondo per Django Unchainedin arrivo) più un nutrito cast di contorno fatto di fedelissimi come Matt Damon o Peter Stormare e grandi new entry come David Thewlis o Lucas Hedges. Tutto inutile senza l'adeguata distribuzione - in Italia sarà durato forse tre giorni - ma in ogni caso dubitiamo che ci sarebbero mai state file fuori dai cinema per storie come questa, la terza fantasia gilliamian-orwelliana dopo Brazil (1985) e L'esercito delle 12 scimmie (1999), in cui un calvo e sociopatico uomo del futuro che parla di sè al plurale come Smeagle/Gollum lavora come impiegato ricercatore di una corporation informatica tentando di dimostrare il cosiddetto "Teorema Zero" che proverebbe definitivamente che la vita non ha un senso.
All'uscita dal cinema si è accesa la discussione su quale filone fantascientifico definisca meglio The Zero Theorem: cyberpunk o steampunk (genere che colloca nel futuro elementi "vintage" dipingendo futuri alternativi in cui questi si sono conservati)? Una possibile risposta è "entrambi". Al primo appartiene quasi di default, come nipotino di Brazil (fra i principali esponenti) e perchè ogni angolo di strada e capo di vestiario potrebbe spuntare direttamente da Blade Runner. Del secondo c'è però un elemento fondamentale, l'ambientazione di gran parte del film: il nostro protagonista Qohen Leth (Waltz) vive infatti - fra cablature, telecamere a circuito chiuso e schermi al plasma - nella penombra di una splendida e cadente chiesa gotica.
Il problema della fede è al cuore di The Zero Theorem. Non in senso liturgico, ma allargata a ogni ambito dell'esistenza. In un mondo paralizzato dalla burocrazia, in cui i contatti umani sono inesistenti o filtrati da uno schermo, la prospettiva di un senso sembra crollare; Qohen attende ogni giorno della sua vita "la chiamata" al suo apparecchio telefonico, come se una divinità dovesse rivelarglisi, ma intanto si chiude sempre più in se stesso, come se il suo idealismo ferito ("uomo di fede" lo chiama a un certo punto un allucinante Matt Damon ossigenato nei panni del boss dell'azienda) diventasse un cancro che lo divora poco a poco. Che una creatura così sola parli di se al plurale è un ottimo esempio del genere di ironia straziante che da sempre contraddistingue il regista. Sempre sia empatico che critico coi propri personaggi, ne ritrae qui uno in bilico tra la perfetta coscienza di ciò che lo distrugge e la sua progressiva e rassegnata accettazione.
In fondo la risposta migliore alla domanda di prima è "nessuno dei due". La vera fantascienza è attenta ai pur in qualche misura inverosimili dettagli del mondo che mette in scena. Qui tutto è approssimativo, accennato, non spiegato. Alla folgorante visione registica di Gilliam non corrisponde un impegno paragonabile nel delineare questo mondo. E ha perfettamente senso se - più che una distopia ambientata nel futuro - consideriamo The Zero Theorem uno sguardo sul presente che allarma Gilliam, dalla distanza della socialità virtuale al progressivo svuotarsi dei valori che supera in volata perfino un nichilista ateo come lui. D'altronde è la cifra della fantascienza contemporanea, che esplora sempre meno le future implicazioni del progresso tecnologico per concentrarsi sempre più sulla solitudine dell'Oggi, sempre meno collettiva e più solipsistica. Per Terry Gilliam, probabilmente, solo un altro segno dei tempi.