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Tutto il mio folle amore


di Lorenzo Meloni



L'aspetto straordinario del nuovo film di Gabriele Salvatores è come una totale ambivalenza nei confronti delle vicende umane narrate riesca a non tradursi in confusione o astuzia cerchiobottista.Tutto il mio folle amore viaggia lungo almeno tre direttive cinematografiche diverse, ognuna a fortissimo rischio di eccesso retorico: c'è la retorica sull'handicap, che da Rain Man a Mi chiamo Sam passando per Forrest Gump rischia da sempre di cedere al paternalismo e all'exploitation; quella sul padre assente, che chissà perchè sembra sempre meritare una seconda possibilità; e poi, senza rivelare troppo, una ventata finale di women power. Tutto molto "americano" - non a caso il film traspone un romanzo di Fulvio Ervas di ambientazione Usa - ma nella versione di Salvatores ben lontano dalle tirate a senso unico che che certo cinema d'oltreoceano (per fortuna non tutto) ci ha riservato negli ultimi anni.

Partiamo da Willi, il "Modugno della Dalmazia", interpretato da un Claudio Santamaria che a noi sembra sempre di più il miglior attore italiano in attività. Triste guascone di giro, maschera sofferente, porta la tradizione musicale italiana a spasso per i Balcani con una passione vera e bruciante che fa innamorare le donne, ma anche un quid di autodisgusto, di coscienza parodistica che renderebbe lancinante passare un'ora e quaranta di film con lui se non fosse per quello che succede. Ovvero che Vincent (Giulio Pranno), il figlio autistico avuto sedici anni fa da una delle tante sedotte e abbandonate (Valeria Golino) e mai incontrato fino a un attacco di sensi di colpa più forte del solito, si nasconde a bordo della sua macchina, dando inizio a un on the road che fra una disastrata tappa e l'altra del tour di Willi nei Balcani dovrà colmare un vuoto gigantesco nelle vite di entrambi. Ma non secondo i modi conciliatori di un "dover essere", che ci rassicuri sull'equilibrio del mondo senza chiedere pedaggi; anzi, il tema della famiglia spezzata e della riconciliazione trae forza emotiva dalla capacità di tutti (specie Pranno, che sa rendere davvero toccante la furiosa incontrollabilità del suo personaggio) di dare il senso della fuga, della distanza, sottoponendo in un certo senso il personaggio allo stesso tormento che ha inflitto a chi aveva bisogno di lui e rendendo faticosa, scomoda, accidentata la strada della sua redenzione.

Il personaggio di Santamaria impara quindi che c'è valore nella stabilità e nel restare, ma in questo che è anche un film di avventure c'è da imparare pure il suo contrario, il fascino della strada, la libertà di esprimersi con una sei corde o una poesia. E qui entra in scena Valeria Golino, la cui madre frustrata e delusa segue un itinerario speculare e in un certo senso opposto a quello di Willi. "Prigioniera" suo malgrado di un amore intenso ma anche difficile e spossante per il figlio, da sempre abituata a spogliarsi del suo tempo per donarlo agli altri, nel bellissimo finale - ma già nella risolutezza davvero wild con cui si imbarca nella ricerca impossibile di Vincent - arriverà in un certo senso a capire le ragioni dell'artista giramondo che odia/ama tanto quanto lui le sue, come se il nido in cui finora si è volontariamente reclusa fosse il bozzolo, la crisalide da cui finalmente erompere. Lui deve rallentare, lei andare sempre più veloce. Nel mezzo, Vincent (dal nome della canzone di Don McLean su Van Gogh) è il deus ex machina perfetto per un film che insegna sia a cercare riparo che a perdere il controllo, sorta di media ponderata fra un equilibrio e un caos che sono entrambi baratri se non si impara a bilanciarli. Non è forse un caso la fugace inquadratura di Willi e Vincent a cavallo in campo lunghissimo, accanto a pale eoliche che potrebbero sembrare mulini a vento, quasi un richiamo chisciottesco a questo binomio di lucida follia.

Torna dunque il Salvatores più picaresco, e come un tempo convince, anche quando l'inno alla rottura degli argini si fa (delicatamente, senza tanti discorsi) veicolo politico e umano di inclusività, abbracciando le stupende piane e montagne dei Balcani e la loro varia umanità di un affetto che non cela paure, non cancella le ombre ma ne fa i contorni scuri di un calore tridimensionale, fino all'acme quando la voce di Santamaria (ma l'imitazione di Modugno è stupefacente) intona Nel blu dipinto di blu, la più grande canzone italiana di tutti i tempi, e quel cielo in cui tuffarsi come in una piscina, di cui "dipingersi le mani e la faccia" proprio come ci immaginiamo facesse Van Gogh, è quello - è lo stesso - della Croazia.

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