di Lorenzo Meloni
Si conclude la settantasettesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Ecco il nostro breve commento agli ultimi film visti. Come al solito, per quelli contrassegnati da * vi rimandiamo alla recensione estesa presente sul sito.
11 settembre
RUN, HIDE, FIGHT*
NUEVO ORDEN
Sempre provocatorio e politico il messicano Michel Franco, facente parte di una nuova mandata di connazionali ("amigos" come Cuaròn, Del Toro e Iñarritu) che comprende fra gli altri Carlos Reygadas. Nuevo Orden è un apologo violento, perfino nichilista, di fanta-politica vicinissima alla politica vera del Messico e dell'America Latina in genere. Prende spunto dall'attuale situazione razziale in Messico, dove sono sempre più frequenti sollevazioni, aggressioni, attentati da parte della popolazione india del paese (tendenzialmente svantaggiata economicamente) contro la borghesia bianca. Ma se lo sguardo sul "popolo" è a dir poco sfiduciato, a fargli ancora più paura è la possibilità che - come tante volte nella storia di questo secolo e del precedente - questi tumulti possano fornire il pretesto per un colpo di stato militare e portare all'instaurarsi di un "nuovo ordine" dittatoriale. Efficace soprattutto nella prima parte, home invasion dove si mischiano echi di Parasite e del Mother! di Aronofsky, col passare del tempo il film mostra un po' la corda, non sorretto da una capacità di tematizzazione all'altezza della sua bravura tecnica, finendo per risultare poco stimolante.
12 settembre
GENUS, PAN
Il filippino Lav Diaz, incoronato definitivamente maestro proprio dal Leone d'Oro a Venezia del 2016 per The Woman Who Left, torna con un altro saggio del suo stile contemplativo fatto di inquadrature fisse e lussureggianti paesaggi naturali, film insieme ancora una volta politico, attento alle sfumature socio-economiche di un certo proletariato rurale. Genus, Pan si ambienta su un'isoletta le cui vicissitudini storiche riflettono in piccolo quelle del paese (un inusuale ibrido di caratteri indigeni, spagnoli, giapponesi e americani) e con la sua storia di colpa, corruzione e amicizie tradite delinea una parabola antropologica sulla violenza irrecuperabile dell'uomo, ancora kubrickianamente scimmiesco - "Pan" è il genere a cui appartengono lo scimpanzè e il bonobo - e incapace di un'elevazione spirituale che non sembra in grado di contrastare le ragioni grette del guadagno. Altrove capace di raggiungere e sfondare il tetto delle 11 ore di durata, qui (come col film premiato quattro anni fa) Diaz trattiene e concentra la propria inclinazione fluviale. Ne risulta un film meno impavido ma sicuramente più capace di avvincere anche lo spettatore intimorito da altri suoi mastodonti, costituendo quindi un'eccellente porta d'ingresso per il mondo affascinante di questo autore unico.
NOMADLAND
Il film vincitore annunciato del Leone d'oro è destinato a far discutere i critici più di quanto non giustificherebbe il suo contenuto cinematografico: Nomadland è un indipendente americano on the road, riuscito e toccante nel suo essere piuttosto convenzionale, che si fa ricordare soprattutto per la prova di Frances McDormand (fresca di Oscar per Tre manifesti a Ebbing, Missouri) che stupisce non solo per la qualità come sempre straordinaria della sua recitazione, ma per la capacità rarissima di tornare ogni volta a delineare figure umanissime e memorabili. Come scrive su Badtaste.it la mia amica Bianca Ferrari, la maggiore originalità sta nel processo di riappropriazione femminile dell'epica degli spazi aperti, da sempre appannaggio del western e quindi degli uomini (come provano anche i film dei fratelli Coen, di cui Joel è marito della McDormand); la narrazione è calda, di una retorica sentimentale a cui si cede volentieri perchè non fine a se stessa ma capace di disegnare piccoli dettagli emotivi, sociali, psicologici. Comunque il film è soprattutto la sua protagonista, originale nel suo essere non "outdoors woman" alla Into the Wild, ma "indoors woman su quattro ruote" e la cui fragilità e dolcezza sono destinate ad accompagnarci ancora in futuro.