Di Lorenzo Meloni
“Florida project” era il nome provvisorio assegnato durante i primi stadi della costruzione a quello che poi si sarebbe chiamato Disney World. A pochi chilometri la sua vicinanza è tangibile ovunque nei colori sgargianti, in nomi di strade come "seven dwarfs" ("sette nani") e chioschi con insegne oltre il limite del kitsch. La suburbia del castello disneyano non è un regno felice ma una periferia da incubo fatta di motel da due soldi, droga, pestaggi, prostituzione.
Siamo entrati al cinema, chissà perchè, convinti che il nuovo film di Sean Baker fosse un documentario. Un accenno di trama letto distrattamente per rovinare meno possibile la visione, stralci di recensioni, amici-appassionati che accennavano alla vita infame di questa giovanissima madre americana e di sua figlia..
..due minuti dentro Un sogno chiamato Florida e l'idea si dilegua. Un po' per via del cast (Caleb Jones fresco di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, una Bria Vinaite che polverizzerebbe nove attori su dieci, Willem Dafoe che è esattamente quel decimo); un po' per la scrittura che - se si nasconde il più possibile dietro l'immediatezza di luoghi e volti - lo fa anche grazie a una dedizione da grande romanzo. Soprattutto, per il senso visivo barocco e straniante del regista statunitense. Poi a dimostrazione di come ogni tanto le idee girino in tondo quello che ormai avevamo bollato come "anti-documentario" fa terra bruciata col suo carico lancinante di rabbia e compassione. Ne emergono insieme una visione del mondo e uno sguardo febbrile, bambino, esploratore, sulle possibilità di raccontarla in modo inedito.
Baker non serve allo spettatore la storia della disadattata Halley, della piccola Moonee e dei suoi amici con sobrietà. I giochi dei bambini, come la lotta per la vita, hanno per sfondo una bomboniera a tinte pastello che sembra uscita da un film di Tim Burton. Il regista vi aggiunge tutto il repertorio cinematografico dell'irreale: sfocature, soffocanti primi piani, riprese in controluce o grandangolari che deformano i bordi dell'immagine, tutti i colori dell'iride sui muri delle case e nel cielo al tramonto, luci di finestre nel buio. Ma l'effetto, anzichè risultare artificiale, rafforza l'impatto iperrealistico di questo mondo grottesco. Si manipola il suono aggredendo le orecchie con il ringhio notturno dei motori, si studia il mondo infantile con le sue impossibili associazioni di idee fino a raggiungere una naturalezza di dialogo più unica che rara. Risorse espressive nate per stupire, illudere, in definitiva per mentire, al servizio della causa opposta.
E non a caso in un film per tre quarti "ad altezza bambino" si fa strada il tema pedagogico della bugia, insieme a quelli contigui dello scherzo e del castigo. I piccoli protagonisti, come tutti i bimbi, combinano guai. E poi mentono per evitare le conseguenze, ridacchiando quando non è niente, gli occhi bassi quando una vecchia casa ha preso fuoco. Così fanno anche gli adulti, lavoratrici precarie e datori di lavoro, tassisti e amministratori, in una catena infernale di rapporti di potere che sale fino al cielo dove passa l'inquietante sagoma nera di un elicottero. Su tutti, in un film in cui le frasi-tipo sono "dimmi la verità!" e "niente bugie!", veglia il burbero ma paterno Bobby di Willem Dafoe, temuto e amato responsabile del condominio "casa viola" in cui si barcamenano a fatica Halley e Moonee. L'unica bugia la dice a una signora che gli chiede se le si rivolga solo per scroccare sigarette. "No" risponde. Nella scena migliore Bobby si accende proprio una sigaretta, e di rimando il condominio prende vita rischiarando la notte con le sue luci: il sunto migliore di un saggio paradossale sull'illusione come unica possibile forma di contatto e comunicazione in un mondo che sa solo mentire e colpire col sorriso sulle labbra. Come ultimo scrigno di Verità.