di Luigi Ercolani
Quando si giunge alla fine di Yurt, ciò che rimane è una sensazione che somiglia all'horror vacui. È difficile metterla a fuoco, ma è come se mancasse qualcosa che invece nella diegesi che ha appena finito di svilupparsi di fronte agli occhi dello spettatore appariva chiaro.
Ci vuole un po' per entrare con nitidezza nella questione, ma una volta fatto spazio la risposta viene spontanea: manca l'antagonista. O meglio, per esserci c'è, ma, come ci ha recentemente ricordato Oppenheimer, è uno di quei nemici che preferisce agire nell'ombra, che suadente avvolge le spire attorno alla preda, che confonde le acque e si vende come messaggero di pace, come nobile d'animo e fattore di benefica unificazione.
Entriamo nel dettaglio, per essere più chiari. Per tutta la durata del lungometraggio in questione, lo spettatore è immerso in una narrazione a senso unico nella quale gli yurt, i dormitori religiosi, vengono dipinti dalla pubblica opinione come luoghi di reclutamento dell'estremismo islamico più retrivo e violento, in controtendenza rispetto invece alla Turchia laica di Atatürk, la quale al contrario è marcatamente proiettata verso il progresso.
Tutto, nel film, sembra in effetti confermare questo stereotipo. La severità dell'istruzione religiosa, le minacce basate su superstizioni, l'osservanza ossessiva delle pratiche di fede, e, non secondaria, un'idea dei rapporti tra i sessi in cui l'uomo comanda e manda avanti tanto la famiglia quanto il paese, mentre la donna deve solo occuparsi della casa, non avendo alcuna legittimità ad esprimere la propria visione in merito a questioni pubbliche.
Eppure, nonostante il clima di estrema rigidità, la violenza verbale e fisica che aleggia non viene da dove il paese stesso si aspetta che nasca. Anzi, nonostante siano rappresentati come individui poco raccomandabili impegnati a frenare la Turchia, i presunti estremisti religiosi sono in realtà quelli che subiscono la persecuzione, mentre coloro che si ritengono dalla parte della ragione, e che si auto-rappresentano come i buoni che portano avanti istanze necessarie per tutti, sono in realtà quelli che, in nome dei loro ideali, non esitano ad utilizzare linguaggio aggressivo e maniere a dir poco feroci.
L'opera prima del giovane Nehir Tuna, dunque, ribalta la prospettiva e la retorica a lo spettatore occidentale è assuefatto. Pur non facendo sconti alle maniere talvolta eccessive di chi si rifugia nell'ambito spirituale per curare ferite dell'anima, allo stesso tempo è tuttavia chiaro nel mettere in guardia da una certa visione che vuole liberarsi dell'ingombrante presenza di Dio per istituire un generico (e non di rado dispotico) nuovo che avanza.
Anzi, per certi versi il regista turco sembra quasi arrivare a suggerire che l'intolleranza laica sia la variabile indipendente, la quale poi genera la variabile dipendente dell'estremismo religioso. La prima infatti potrebbe infatti essere all'origine di una sindrome d'assedio che porta le persone che vivono la loro fede in maniera irremovibile a radicalizzarsi ulteriormente. Questo potrebbe a sua volta essere percepito come un pericolo dalla frangia secolare che si sentirebbe legittimata a temere per sé stessa.
In questo modo un circolo vizioso che può interrompersi unicamente quando uno dei due contendenti lascia la vita sull'ideale campo di battaglia. Quando invece basterebbe accettarsi ob ovo, senza preclusioni.