di Luigi Ercolani
“La casa sul confine dei ricordi./La stessa sempre, come tu la sai./E tu ricerchi là le tue radici/Se vuoi capire l'anima che hai”. Le parole sono di Francesco Guccini, la canzone è Radici: un'opera che, similmente a tante del cantautore modenese, accarezza dolcemente le corde della memoria come fossero quelle di un'arpa, per rievocare un passato che, nel bene e nel male, non ci abbandona mai davvero.
Via don Minzoni N.6, secondo lungometraggio del giovane regista Andrea Caciagli, si ispira al medesimo spirito (tanto da citare, durante la storia, una delle canzoni invece più conosciute dello stesso Guccini) ed esattamente come Radici lo traduce in una malinconica ode alla casa. La casa come rifugio, la casa come custodia dei ricordi, la casa come luogo di spontanea complicità e di alterni conflitti.
Da evidenziare, in questo senso, è l'inizio che introduce lo spettatore all'interno della cornice narrativa. Non sfugge infatti all'occhio più attento, infatti, che il regista sceglie (è proprio il caso di dirlo) di aprire la porta del proprio lungometraggio con uno stile che ricorda molto quello di Wes Anderson.
La sostanziale differenza, tuttavia, è che quest'ultimo solitamente opta per un registro comico, farsesco, anche di fronte a drammi umani di difficile risoluzione, sviluppati attraverso un ritmo cadenzato. Caciagli, viceversa, riprende sì alcuni elementi tipici della narrativa del regista texano, ma li inserisce in una diegesi che scorre placida e fluida, senza far rilevare picchi verso l'alto o verso il basso.
Ciò che colpisce di più, durante tutto lo scorrere del film, è la costante attenzione al dettaglio. La casa della nonna del protagonista Andrea, che la famiglia di quest'ultimo ha dovuto vendere e da cui lui porta via via obtorto collo gli ultimi ricordi della gioventù ivi trascorsa, è infatti più volte rappresentata focalizzandosi sui singoli oggetti o mobili, come se il regista volesse non solo dare a chi guarda un'idea precisa del luogo, ma anche portarlo a sviluppare per essi un attaccamento affettivo simile a quello che prova il personaggio principale.
L'utilizzo del dettaglio o della carrellata su quanto compone la casa accentua inoltre la sensazione di malinconia, in quanto, via via che il racconto procede, anche lo spettatore prende coscienza che gli elementi del luogo saranno o abbandonati in favore dei nuovi inquilini o inscatolati per essere estirpati dal proprio punto di partenza. A tale sensazione se ne accompagna inoltre un'altra, quella della disillusione.
La mancanza di mezzi per poter mantenere la casa, e al contempo il dolore di doverla abbandonare, mettono il protagonista di fronte ad una strada senza uscita, che lo obbliga a lasciar andare una parte consistente di ciò che lo ha portato a definire sé stesso. In tal senso, Caciagli ha altresì il merito di aprire uno squarcio sulla realtà del precariato giovanile, quello che ha impedito ad una larga fetta di una generazione di avere una casa di proprietà, o di tenere quelle in essere.
L'intreccio di tematica sociale (comunque secondaria, ancorché presente) e prospettiva intimistica rendono Via don Minzoni N.6 un film che, pur con qualche passaggio ingenuo o rudimentale, ben descrive la condizione dell'attuale classe di trentenni italiani. Quelli non di rado costretti a sacrificare il sentimento sull'altare della ragione, che assume sempre più, però i contorni del “Primum vivere”.