di Luigi Ercolani
Una curiosità, sicuramente. Dopo aver approfondito un film che racconta il viaggio nel già visto, il ripercorrere del noto, ci troviamo in questo caso di fronte ad un lungometraggio che racconta l'ignoto, anche qualora quest'ultimo rappresenti altresì un'immersione in qualcosa di nuovo, che merita di essere esplorato.
Viaggio in Giappone è, esattamente come Appuntamento a Land's End, un film che tratta il rapporto dell'essere umano con il passato. Ma mentre la produzione inglese affrontava la questione attraverso una camminata all'indietro, passo dopo passo, orma dopo orma, in ciò che è stato, il film francese parla invece di un passato che ci insegue anche dall'altra parte del mondo.
Ed anzi, esso per certi versi pare manifestarsi all'essere umano che è ricerca in un luogo ed in un tempo ben precisi, come fosse ricondotto lì da forze sovrannaturali che stabiliscono proprio quello come polo di attrazione, per far sì che l'essere umano abbia l'opportunità di vivere quella determinata esperienza. Un concetto alla base che, se non meramente escatologico, potrebbe comunque essere definito come di matrice quasi fatalista.
In questo senso, la regista Elise Girard sembra dirci che tutto ciò è possibile solo se ci lasciamo alle spalle quello che conosciamo ed apriamo una finestra su un mondo totalmente altro, lasciandoci incantare dal nuovo. Per la protagonista, la scrittrice Sidonie, la terra nipponica rappresenta precisamente questo: non solo un luogo fisico dove ritemprarsi e vergare un ulteriore capitolo della propria vita professionale, ma anche, e soprattutto, una scoperta dell'ignoto che favorisce tanto la riscoperta di sé quanto la riappacificazione con il proprio vissuto.
In Viaggio in Giappone, tuttavia, possiamo anche assistere ad una sorta di convergenza tra il punto di vista del personaggio principale e quello dello spettatore, che tramite tale lungometraggio ha modo di gettare uno sguardo su una realtà che potrebbe non aver avuto occasione di esperire. E così, sia chi è dentro chi la storia, sia chi invece la vive da fuori, possono sfiorare la superficie di una cultura millenaria come quella giapponese, imparandone non solo usi e costumi (in alcuni aspetti, anzi, livellati al cosiddetto Occidente) ma anche, e soprattutto, le peculiarità, la forma mentis e la sensibilità verso l'intangibile caratteristica del paese del Sol Levante.
Tanto Sidonie quanto lo spettatore europeo, verosimilmente il destinatario ultimo della storia, sono così immersi in un contesto che pare irreale, molto di distante dalle abitudini di partenza. Un contesto fatto di quelli che Giacomo Leopardi, nel suo memorabile Infinito, chiamava “interminati spazi”, “sovrumani silenzi e profondissima quiete”.
Elise Girard, nella sua regia, sceglie di ricalcare la cultura giapponese, tarando il film su un ritmo cadenzato, felpato, che assume in taluni passaggi persino tratti vieppiù letargici. Se tale impostazione potrebbe portare qualcuno ad un fisiologico calo di attenzione, tali vuoti narrativi rappresentano tuttavia un'opportunità unica per riflettere non solo su quanto si sta vedendo, ma anche, e soprattutto, sugli input che questo rapido assaggio di cultura giapponese potrebbe offrire allo spettatore stesso. Mettendo a tacere, al contempo, quell'horror vacui che sembra invece impregnare la cultura occidentale.